Cenni biografici
Montesquieu (Charles de Secondat, barone di La Brède), nasce nel 1689 a Bordeaux, in un'antica famiglia di magistrati. Trascorse l'infanzia al castello di La Brède ed entra poi nel collegio degli oratoriani di Juilly, presso Meaux, dal quale esce nel 1705 per studiare diritto a Bordeaux. Avvocato nel 1708, si trasferisce a Parigi per quattro anni e, dopo la morte del padre, entra come consigliere al parlamento di Bordeaux (1714). Nel 1716, in seguito alla morte di uno zio, assume la carica di presidente à Mortier. Nel 1716 entra anche all'Accademia delle scienze di Bordeaux, in cui legge alcuni lavori, che suscitano il suo interesse per le scienze e la sua fede nel metodo sperimentale, applicato a ogni campo della conoscenza. Contemporaneamente si interessa ai fenomeni sociali, affrontati con lo stesso spirito analitico. Queste esperienze confluiscono nella sua prima opera importante, Lettere persiane. La vasta eco suscitata dall'opera, apparsa anonima ad Amsterdam nel 1721, ma di cui tutti avevano individuato l'autore, gli apre le porte dei salotti parigini, che egli frequenta fino al 1725. Intorno al 1724 compone un Dialogo di Silla e Eucrate, e nel 1725 Il tempio di Cnido. Trovandosi ormai nell'impossibilità di adempiere ai suoi doveri di magistrato, vende la carica nel 1726. Nel 1728 è eletto membro dell’Accadémie française e parte per una serie di viaggi in Europa: Vienna, Venezia, Olanda, Milano, Torino, Genova, Pisa, Firenze. Nel 1729 arriva a Roma, poi va a Napoli. Soggiorna di nuovo a Roma. Poi va in Germania, Olanda, parte dall’Aja per l’Inghilterra e vi rimane fino al 1731. Il viaggio gli fornisce nuovo materiale di studio e preziose informazioni politiche e sociali. Da questa vasta documentazione trae la sua prima grande opera: Considerazioni intorno alle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e, dopo quindici anni di lavoro, Lo spirito delle leggi pubblicato anonimo a Ginevra nel 1748. Con l'enorme successo arrivano a Montesquieu anche violente critiche, alle quali risponde nel 1750 con una Difesa dello "Spirito delle leggi". Montesquieu trascorre gli ultimi anni tra Parigi e il castello di La Brède e, nonostante l'indebolimento della vista, si dedica alla composizione di nuovi scritti. Muore nel 1755 a Parigi. Una buona parte della sua opera, non sistemata al momento della morte, fu conosciuta molto più tardi: è il caso di I miei pensieri, pubblicati nel 1899, delle Note di viaggio e delle Lettere, alcune delle quali apparvero addirittura nel 1941.
C.L. de Montesquieu a Genova
Gli scritti di Montesquieu rivelano la personalità dell'autore, gli aspetti contraddittori di un aristocratico riformatore, uno spirito grave non alieno dall'ironia e dalla frivolezza. I contemporanei ne apprezzarono l'opera, ma anche la dignità umana. Montesquieu è una delle maggiori figure del "secolo dei lumi": gli spetta il merito di aver gettato le basi delle scienze sociali ed economiche moderne, di aver fondato la filosofia della storia. A prescindere dall'originalità del suo metodo d'indagine, la sua opera offre un ricco campionario di quelle idee che furono il patrimonio più cospicuo dell'Illuminismo e analizza come i fatti umani si spieghino in modo umano e non sia la fortuna a dominare il mondo.
C. Bo inizia il suo volume Echi di Genova negli scritti di autori stranieri con la poesia Adieu à Gênes, affermando che Montesquieu stesso aveva precisato di averla scritta in un momento di malumore e dopo un soggiorno poco divertente. Bo continua poi: «Montesquieu si era annoiato ma non basta. L'accoglienza che gli avevano riservato i genovesi era in contrasto con le feste, i riguardi e gli omaggi che aveva avuto in altre grandi città d'Italia». Dopo la poesia, che probabilmente, si trattava di un mero divertimento, Bo afferma come in essa ci siano già «due o tre elementi capitali di quella che sarà la letteratura su Genova: la ricchezza, la bellezza superba dei suoi palazzi, la noia e, naturalmente, l'avarizia. Evidentemente allo scatto d'umore, lo scrittore legava motivi che appartenevano al libro dei luoghi comuni e di cui lo spiacevole soggiorno genovese gli aveva fornito una specie di conferma. Con questo non si intende negare le impressioni dirette (...)».
Afferma Pier Luigi Pinelli: «Il viaggio è per Montesquieu scuola di vita, è un piacere dello spirito, un'arte, quasi una vocazione. Il viaggiatore non è un turista, ma è colui cui nulla sfugge: né la qualità della vita, né la bellezza dell'ambiente, né la situazione politica, né i valori artistici del paese che visita. Ora Montesquieu unisce alle qualità del viaggiatore l'interesse del sociologo e la visione storica illuminista. Montesquieu, che ha già cominciato a viaggiare prima del 1728, con la fantasia attraverso i suoi persiani (Lettres persanes, 1721), nella trentunesima lettera (Rhédi a Usbek), traccia il programma che avrebbe seguito sette anni dopo nel suo Viaggio in Italia. In esso scrive Rhédi-Montesquieu: – M'istruisco sui segreti del commercio, sugli interessi dei principi, sulla forma del loro governo; non trascuro neppure le superstizioni europee; mi interesso di medicina, di fisica, di astronomia; studio l'arte: esco infine dalle nuvole che mi coprivano gli occhi nel mio paese natale. – È quello di Montesquieu, dunque, un viaggio-conoscenza, in cui allo stupore dei suoi persiani di fronte alle cose egli sostituisce l'analisi e la critica, il desiderio di verificare lo spirito del naturalista, dello scienziato o del sociologo il clima, l'economia, il commercio, le famiglie, il carattere dell'uomo e della società. Il viaggio, inoltre, accende in Montesquieu il gusto dell’arte: è l’Italia, come scrive ad un amico, che gli apre gli occhi sull’arte. Lo storico e il sociologo sembrano vinti dalla bellezza e Montesquieu saluta nell’arte la più alta attività umana. La relazione di Montesquieu sul suo soggiorno a Genova dal 9 al 20 novembre 1728 contiene tutte le finalità del viaggio: lo studio della politica e dell’economia della Repubblica, degli abitanti e delle loro attività, della città e delle sue bellezze artistiche. È un quadro non certo idilliaco, legato ad un malumore e ad un’acredine inspiegabili e forse ingiustificati, che tuttavia non possono falsare una realtà politica e sociologica negativa, per molti versi riscontrabile ancor oggi. La descrizione di Montesquieu prende in considerazione tutti gli aspetti fondamentali: dal quadro geografico al quadro politico, da quello economico al quadro sociologico ed artistico. Nel testo La Repubblica di Genova, tratto dal Viaggio in Italia (1728), l’analisi non è condotta in modo lineare, secondo un piano ben definito, ma sembra uscire da un taccuino di appunti, presi con frammentarietà e, spesso, senza un filo logico. Montesquieu passa da un argomento all’altro in modo disordinato, limitandosi a giustapporre le sue osservazioni le une alle altre. Le ripetizioni sono, dunque, frequenti a sottolineare le impressioni che maggiormente lo hanno colpito. Nella Lettera su Genova (1731), invece, che ripropone, tre anni dopo, gli stessi contenuti del Viaggio, come risulta dal confronto fra i due testi, il giudizio di Montesquieu si fa più organico: il tono più distaccato permette di dare il giusto valore ad una realtà politica, sociologica e artistica condizionata o falsata dall’umore del momento. Nei due testi, comunque, il giudizio politico di Montesquieu sulla Repubblica di Genova è decisamente negativo: – C’è sempre un nobile genovese in giro a chiedere scusa a qualche sovrano per le imprudenze fatte dalla Repubblica. – In politica interna la Repubblica è incapace di avere una guida, un doge che sappia imporre la propria autorità ai nobili: ogni nobile, osserva Montesquieu, è un piccolo sovrano. I privati sono ricchissimi, la Repubblica è poverissima e non riesce neppure a garantirsi le forze necessarie alla sua difesa. Fortuna che esistono le montagne! Tollera che i cittadini più ricchi investano il loro denaro nel regno di Napoli o nel Ducato di Milano: risultano così sudditi dell’imperatore e quindi non perseguibili dalla giustizia della Repubblica. Nella Lettera, Montesquieu aggiunge un giudizio di spregio estremo nei confronti della giustizia genovese: – Vi sono a Genova i tribunali più iniqui della terra e la punizione dei crimini è così mal organizzata che uccidere un uomo è meno grave che frodare su un’imposta.– Sul piano economico, lo stato si lascia imporre elevati tassi di interesse dal Banco di San Giorgio, che ne trae enormi vantaggi. Per rimpolpare le magre casse della Repubblica si arriva perfino ad organizzare, come ai giorni nostri, una lotteria “nazionale”: in molti stati d’Italia si scommette sul sorteggio per l’elezione dei magistrati genovesi. La politica estera non offre un quadro migliore. La Francia tratta la Repubblica come uno stato sottomesso: Genova deve erogare oboli e prestiti per paura di perdere la propria indipendenza. Nelle diatribe con altri stati (...) Genova è costretta a chiedere l'appoggio dell'imperatore ed a subire spesso pesanti umiliazioni. La sola iniziativa politica positiva è, a parere di Montesquieu, l'acquisto di Finale, che ha fruttato ai genovesi molta ariglieria ed ha assicurato loro una abbondante produzione di olio. La conclusione del giudizio di Montesquieu è pertanto perentoria: anarchia, insubordinazione, ribellione - ottocento o novecento nobili che sono altrettanti sovrani - e la codardia generale sono alla base dell'inefficacia e dellla fragilità del governo repubblicano di Genova. Genova è una città di mercadans. Tutti commerciano: nobili, borghesi, perfino il doge. I genovesi hanno rapporti commerciali con la Francia, la Spagna e l'Ingilterra. La Repubblica importa pellami, seta, zucchero ed esporta olio, manufatti, limoni e funghi che nascono sulle montagne. Genova pratica anche il commercio di transito: ha sostituito Ginevra per il passaggio delle merci dall'Inghilterra al Piemonte. E, se i genovesi sono per Montesquieu tardi come gli antichi Liguri, sanno fare bene i loro affari: la parsimonia spinta fino all'avarizia e l'interesse sono alla base della loro filosofia di vita. Sono i privati e il Banco o Casa di San Giorgio (fondato nel 1407) che traggono i maggiori profitti dal commercio, non la Repubblica. Le finanze dello Stato -sottolinea Montesquieu nella Lettera - sono dissestate e la cassa militare in un disordine spaventoso. Il popolo deve sopportare il dissesto finanziario della Repubblica: è oppresso da monopoli sul pane, sul vino e su tutti i generi alimentari. E questa insopportabile situazione porta la gente alla disperazione: non c'è un solo genovese-scrive Montesquieu - che non detesti i suoi governanti. Lo spirito del commercio e la ricerca del profitto personale sono dunque molto vivi, ma assumono per Montesquieu una connotazione negativa: consentono ai privati di accumulare enormi ricchezze, ma lasciano la Repubblica in difficoltà economiche. L'accumulo di ricchezze, d'altronde, non è, secondo lo scrittore francese, neppure sintomo di benessere per i cittadini, ma solo espressione di una società bassa e gretta: - tutto ciò produce gli animi più bassi del mondo, sebbene i più vani. - Il giudizio di Montesquieu sugli abitanti di Genova è ancor più negativo di quello sulla Repubblica. (...) L'avarizia è per Montesquieu caratteristica peculiare dei genovesi. Genova la superba diventa per lui Genova l'avara. I ricchi sono ricchi perché è la pietra che costa meno; i più bei palazzi sono depositi di merci fino al terzo piano: non vi sono domestici e la sera non è possibile far visita al padrone di casa perché non esiste alcun tipo di illuminazione. Del resto un invito a cena, a Genova, è cosa inaudita. I genovesi sono come le pietre massicce: non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati all'estero, per affari, ritornano a Genova più genovesi di prima. Sono orgogliosi, ma paurosi e spesso il loro orgoglio viene umiliato. Le signore di Genova sono altezzose (...). Ma (...) non sono forse quelli descritti da Montesquieu, almeno in parte, i tratti anche del genovese di oggi?
La Genova commerciale e parsimoniosa, asociale e inospitale poteva esere una città d'arte? Il giudizio di Montesquieu sulla Repubblica e i suoi abitanti sembra Interferire anche sul giudizio estetico. La città, vista dal mare è bella, ma addentrarsi nel tessuto urbano è difficile. (...) I bei palazzi contrastano con l'avarizia e l'inospitalità dei proprietari: non possono essere visitati perché il padrone quando è assente porta l achiave in tasca. (...) Il palazzo del doge ha bei saloni, ma ben lontani dallo splendore di Venezia. Sembra quasi che ad arte Montesquieu denigri le bellezze di Genova o tenda ad attenuarle con osservazioni al negativo o raffronti sfavorevoli. (...) Forse l'educazione all'arte che Montesquieu completa a Firenze e a Roma ha reso il viaggiatore francese, qualche anno dopo, meno incline ai facili entusiasmi del neofita.»
Montesquieu e gli altri viaggiatori che furono a Genova
Come afferma C. Bo nellintroduzione a Echi di Genova negli scritti di autori stranieri, le pagine di Montesquieu saranno riprese direttamente o no da altri viaggiatori. Questo perché Montesquieu continuava «già un discorso in atto e si riallacciava a una famiglia di spiriti più inerti e curiosi che avevano visto Genova nei suoi aspetti più pittoreschi e avevano subito puntato sul carattere dei genovesi per entrare nello spirito della città. Il risultato di un procedimento del genere è abbastanza prevedibile e scontato perché vi si debba aggiungere qualcosa, per secoli si è preferito adoperare quelle chiavi apparenti piuttosto che affrontare la ricerca da un'altra parte. In fondo per capovolgere la situazione si dovette attendere che altri spiriti abolissero questi schemi e legassero il discorso a un altro pianeta intellettuale. Ad ogni modo sono due estremi (...), per cui da una parte c'è una valutazione minore del carattere dei genovesi e dall'altra vive e respira una concezione superiore che, astraendosi dalle abitudini e dalle leggi della realtà quotidiana, trova un'altra dimensione alla città e riesce a farne quasi un simbolo».
Bibliografia
La Repubblica di Genova, da C.L. MONTESQUIEU, Voyages, 1894, tratto da Addio a Genova, a cura di e tradotto da Pier Luigi Pinelli, Genova, 1993;
Addio a Genova, da C.L. MONTESQUIEU, Oeuvres complètes, 1949, tratto da Addio a Genova, a cura di e tradotto da Pier Luigi Pinelli, Genova, 1993;
Lettera su Genova, da C.L. MONTESQUIEU, Voyages, 1846, tratto da Addio a Genova, a cura di a tradotto da Pier Luigi Pinelli, Genova, 1993.
C.L. MONTESQUIEU, Riflessioni e pensieri inediti (1716-1755), Torino, 1943
C. BO, Echi di Genova negli scritti di autori stranieri, Torino, 1966, pp. 7-8 e 11-12